Un tema molto dibattuto e delicato è quello che riguarda le atlete professioniste e la maternità. Spesso, infatti, la gravidanza potrebbe essere d’intralcio per tutte quelle atlete che vogliono rimanere ad alti livelli, avere la possibilità di gareggiare, competere e soprattutto vincere. E’ come se le atlete fossero costrette a scegliere tra lo sport e il diritto alla maternità.
Recentemente aveva fatto notizia anche la storia della pallavolista Lara Lugli, licenziata perché rimasta incinta, ma di storie ce ne sono diverse, come quella di Allyson Felix, atleta olimpica americana. Negli Stati Uniti lo stipendio degli atleti professionisti proviene quasi esclusivamente dagli sponsor. Nel 2010 Felix, già tre volte campionessa del mondo, aveva quindi firmato un contratto con Nike con la quale condivideva la volontà di promuovere lo sport come mezzo di emancipazione femminile. A gennaio 2018 erano da poco cominciate le contrattazioni per il rinnovo dell’accordo e Felix chiese di includervi la garanzia di una tutela economica in caso di una sua gravidanza, ma l’azienda si rifiutò di accontentarla. L’atleta troncò quindi il rapporto quasi decennale con la multinazionale, denunciando le difficoltà incontrate nel mondo dello sport professionistico dalle donne che desideravano avere figli. E ancora La maratoneta olimpica Kara Goucher, anche lei sponsorizzata dal colosso sportivo, nel 2010 aveva scoperto, a gravidanza iniziata, che ogni suo compenso sarebbe stato interrotto fino alla ripresa delle sue gare, trovandosi costretta a rinunciare all’allattamento per partecipare a una mezza maratona a tre mesi dal parto. La ripresa precoce le procurò, fra l’altro, complicazioni fisiche irreversibili. La sette volte campionessa nazionale mezzofondista Alysia Montaño, nella stessa situazione, nel 2014 partecipò simbolicamente ai campionati americani, gareggiando negli 800 metri all’ottavo mese di gravidanza. Mentre i media la celebravano come “la runner incinta“, nel privato stava lottando per non perdere lo stipendio.
Queste storie o forse meglio dire scandali, hanno dimostrato le problematiche del mondo sportivo professionistico per le donne e la maternità. Per scoprirlo non serve guardare agli Stati Uniti: oggi, per esempio, molte atlete italiane di alto livello vengono costrette a sottoscrivere le cosiddette “clausole anti-gravidanza”, in cui si impegnano a non rimanere incinte, pena l’espulsione dalla società sportiva. Un decreto del 2019 ha istituito come parziale soluzione il Fondo di sostegno alla maternità delle atlete, devolvendo alla causa un milione di euro all’anno fino al 2021: un piccolo passo in avanti, ma un bonus triennale non è certo sufficiente a risolvere la questione. Sempre parlando di miglioramenti, sembra essere più incoraggiante l’intenzione della Figc di introdurre il professionismo nel calcio femminile entro il 2022.
Di sicuro c’è ancora molta strada da fare prima che si arrivi ad un riconoscimento per le atlete incinta, come prima cosa per rispetto in quanto donne e per la loro maternità.